martedì 1 luglio 2008

Il mio lavoro

Quando si è piccoli, si sogna il lavoro da fare da grandi.
Quando ero piccola ho sognato diverse cose, dalla scienziata alla farmacista. Non sono nata con il pallino del giornalismo, anche se alle elementari ho coordinato il TGiovani per la recita scolastica.
E' stato un innamoramento lento, senza colpi di fulmine (e quindi, un amore destinato a durare). E la scintilla, tra me e lui (il giornalismo) è scattata definitivamente durante un convegno alla Lumsa, con Paolo Gambescia, ex direttore del Messaggero che raccontava un episodio. Lui, sotto scorta per minacce ricevute dalle Br se non ricordo male, in casa con il figlio piccolo che guarda dalla finestra la polizia e gli chiede: "Papà, ma perché proprio tu?". E lui: "E perché non io?". Lì ho capito che era QUELLO che volevo fare, nient'altro. Sapevo che sarebbe stata una strada dura, quasi impossibile. Ma valeva la pena, almeno tentare.
Oggi che questo mestiere (non è una professione, è un mestiere - Gambescia docet) lo faccio mi capita più volte di rispondere alla domanda: ma che lavoro fai?
Ecco, certi giorni me lo chiedo anche da sola. E quasi sempre la risposta arriva. Perché ci sono momenti che vorrei lavorare in banca o alle poste, senza responsabilità, con orari fissi e regolari, ferie sicure, riposi sabato e domeniche e festivi, del tipo: fai il tuo e vai a casa. Vorrei avere il tempo per dormire, mangiare regolarmente alle 13 e alle 20 seduta a un tavolino. Vorrei avere il tempo di telefonare (quante persone ho perso per strada perché io NON TELEFONO MAI). Vorrei avere il tempo di andare dal medico senza fare le corse in macchina. Vorrei non avere il telefono aziendale (anche se è il Blackberry!). Vorrei andare a dormire senza pensare al titolo, alla foto, al pezzo da fare domani, a cosa fare domenica che non c'è niente...
Poi, capitano giorni come questi. In cui ti rendi conto di aver fatto una cagata bestiale sul giornale di ieri (oggi per chi legge) e di dover rimediare. Allora scatta un meccanismo, che ti fa pensare a una velocità impressionante, colleghi nomi, numeri, fatti. Le dita compongono da sole i numeri da chiamare mentre pensi già a quello che farai dopo. L'adrenalina che sento quando sto per dare forma a una notizia è incredibile. Le idee si intrecciano con quelle degli altri colleghi, inquadri la pagina, come la vuoi tu, la disegni nella tua testa e inizia a comporla, come se fosse una canzone. E la soddisfazione che si prova quando quella notizia ce l'hai solo tu e dai un buco ai colleghi è impossibile da descrivere. Così come l'emozione di raccontare la vita della gente, il dramma di tante persone. E capisci che anche solo scrivere questo, ti soddisfa e ti ripaga di tante altre cose. Compresi gli orari impossibili, le cene saltate, la vita assurda, le feste non festeggiate.
Ieri girando qua e là su internet mi è capitato il blog del mio collega di Treviso, Manuel Scordo. In un post c'era una frase bella, che descrive benissimo il nostro lavoro: E giornalismo è raccontare vite, storie, emozioni: ma solo dopo averle viste negli occhi. Il resto è una replicante imitazione.
Aveva ragione Paoluzi, "il maestro", quando davanti alle nostre rimostranze alla scuola di giornalismo per un servizio o troppo tardi, o troppo presto o troppo lontano, insomma, un servizio scomodo, ti guardava e chiedeva: che mestiere vuoi fare?

2 commenti:

noir ha detto...

Vivere da giornalista o vita da giornalista, raccontare la vita reale o cercare di imitarla, trasferendo con l'inchiostro le emozioni, scegliere di essre macchine per articoli, uomini, giornalisti, o giornalisti uomini... alla fine nessuno, visti i tempi che corrono, ha molta scelta ed è costretto purtroppo a dei dolorosi compromessi.
Manuel

Marta ha detto...

Grazie per la visita, Manuel e per il commento. E , soprattutto, piacere di conoscerti!