lunedì 29 ottobre 2007

48 ore


Questa foto è esplicativa. Un mister pensieroso, afflitto da una squadra che sembra spenta e dall'accusa di aver chiesto a Lotito di "calmare" la Reggina. Lui, Delio Rossi ("tuo zio Delio", direbbe Valerio) è silente. Parlano però i risultati che evidenziano una squadra spenta, "ci sono problemi" ha ammesso il mite Ballotta, "un momento delicato" lo ha definito Rocchi. Mi sembra così lontano quel mercoledì da leoni, quando per poco non piegavamo il Real Madrid. Dopo quella partita, qualche lampo e niente più. E tra 48 ore c'è il derby. "LA" partita, che solo chi è tifoso sa quanto vale. Sa quante e quali emozioni regala. Quando mi trovo a parlare con chi non ama il calcio mi rendo conto che tifare una squadra è avere una specie di malattia. Perché il mio umore cambia, mi arrabbio o sono contenta a seconda dei risultati della Lazio. E tutto questo esplode all'ennesima potenza durante il derby. Un turbine di emozioni, di ricordi. Come quando siamo scappati, io e Luca, cinque volte dalla carica della polizia. O quando hanno sospeso la partita e entrava il fumo dai corridoi, non si vedeva niente, si sentivano solo i passi della celere mentre ci caricava. Il rumore degli scudi e dei manganelli, gli occhi che bruciano, il respiro tagliato in quell'angolo umido di Roma dove c'è l'Olimpico. Eppoi, il nodo alla gola, il viaggio in macchina, la sciarpa al finestrino "perché si deve vedere di che squadra siamo". I gesti scaramantici, le stesse parole, lo stesso svincolo, gli stessi vestiti. E lo sguardo verso quella scritta enorme "Ave Paolo", in ricordo di un derby che mai dimenticherò. I tempi sono cambiati dal quel 6 gennaio di qualche anno fa. Un'altra storia, un'altra Lazio. Temo questa partita, perché ho visto la Lazio in affanno, smarrita. E le merde fanno risultato, sono gasati. Totti si è risparmiato per mercoledì notte, Vucinic è rinato a vita nuova, "aspetto la Lazio", ha detto. Giocano, macinano punti, tritano gli avversari. Noi siamo più piccoli, ma non meno domi. Anzi. E' la nostra storia. Piegati qualche volta, ma mai spezzati. Ma non voglio pensare. Voglio solo aspettare. Perché 48 ore sono poche.

mercoledì 17 ottobre 2007

Dopo tanto tempo

Quando uno decide di mettere in piedi un blog, dovrebbe averne cura, aggiornarlo, riempirlo di cose, di foto e voci. Io per mlto tempo ho un po' abbandonato la mia araba fenice, pur lasciando, come ultima mia traccia, un post molto bello. Ma è il caso di riprendere a scrivere, a pensare a pubblicare.
E ricomincio con un piccolo testo di un mio caro amico, scritto per la morte di Luciana Frassati Gawronska, figlia di Alfredo - il fondatore de La Stampa - sorella del beato Pier Giorgio e madre del giornalista Jas Gawronsky. E' morta a 105 anni ed è stata testimone di un secolo intero. Il Novecento, un periodo di grandi trasformazioni e di grandi avvenimenti. Lei ha avuto un osservatorio speciale per guardare tutto questo, per capirlo, scriverlo (ha pubblicato diversi libri) e raccontarlo agli altri. Io l'ho conosciuta solo come sorella di Pier Giorgio, beatificato da Giovanni Paolo II e morto a 24 anni di poliomelite fulminante: gli anni che ha vissuto li ha dedicati ai poveri, agli ultimi. La sorella, negli anni, ha raccolto molto della vita del fratello, mettendolo assieme in alcuni bei volumi.
Domenico, che ha avuto il privilegio di incontrare Luciana Frassati Gawronska, la descrive con queste bellissime parole.

"A casa sua c'era nata La Stampa. E ci si sentiva addosso tutta la grandezza del senatore Alfredo Frassati ad entrare nel palazzo torinese di piazza Solferino dove Luciana Frassati viveva. Ti accompagnavano per le stanze dagli alti soffitti il gusto e l'arte della madre, Adelaide. Sopra tutto, sentivi ancora vivo il ricordo di suo fratello. Pier Giorgio che in casa era considerato un po' pigro. Pier Giorgio morto a 24 anni. Pier Giorgio che lei, Luciana, aveva iniziato a conoscere davvero solo quando, il giorno dei funerali, dalla finestra una fila interminabile di persone dirette verso la chiesa della Crocetta cominciava a raccontare la sua santità. Pier Giorgio al quale lei, Luciana, aveva dedicato tanta parte della sua vita. Ore, giorni, pagine forse sottratti al suo amore per la poesia e spesi per raccontare al mondo chi era suo fratello. Era bello sentirla parlare di lui. E se anche la sua memoria ogni tanto le giocava qualche scherzo, in lei ogni volta rivivevano le gesta della Compagnia dei tipi loschi, le difficoltà di uno studio in cui zoppicavano entrambi, la passione per la montagna, una spiritualità incarnata davvero. Riviveva con le parole, con gli sguardi, magari mentre giocava con un fermaglio, tutto quello che aveva raccontato per iscritto, in quei libri tradotti in chissà quante lingue. E ti sorprendevi a immaginare che da un momento all'altro da quella porta avrebbe fatto capolino il buon Pier Giorgio".