mercoledì 30 luglio 2008

Le barricate, ancora loro

Sarà l'estate che ci fa male. Ma siamo di nuovo sulle barricate, a tre giorni dallo stop estivo. Quattro giorni di sciopero (revocabili) per il mancato rispetto dell'azienda di un accordo con il cdr (la componente sindacale dei giornali). Per chi vuol saperne di più, legga i comunicati su www.epolis.sm.

Oggi è il secondo giorno. Quando uno pensa allo sciopero, dice: ammazza, adesso mi riposo qualche giorno...
Macché. Telefonate fiume a tutte le ore, sms, email, minacce, rettifiche, persone che ti cercano per chiederti perché non è uscito il giornale. L'ansia non ti lascia in pace, anche se provi a sfogliare un libro o la guida del vicinissimo viaggio. Mal di testa martellante. Sono faticose le barricate. Ma necessarie, perché (e detto da me fa un certo effetto anche per la sottoscritta) in questo momento, almeno per noi, non c'è alternativa alla prova di forza per far rispettare i nostri diritti di lavoratori.

giovedì 24 luglio 2008

Il vento, sempre lui

Era un po' che non soffiava così forte. Quasi me l'ero dimenticato. E invece eccolo qua, forte e prepotente come sempre. E per introdurre questo post uso le parole del mio amico Giornalaio: se leggete, non fate finta di non averlo letto.

Il vento, dicevo. Ha scompigliato un po' di carte, e spesso questa non è una brutta cosa. Ha toccato nervi scoperti, ha risvegliato animi indolenziti dalla vita, ha oliato ingranaggi arrugginiti dall'appannaggio di una calma apparente. Ho provato a tenere ferme le carte che volavano via a ogni folata, c'ho messo impegno, ho faticato non poco. Invece, niente. Ha vinto ancora lui. Forse non mi sono impegnata abbastanza, mea culpa, forse doveva andare così. Forse qualche cartaccia qua e là può rivelarsi documento interessante. E se nemmeno quella servirà a riempire caselle vuote, pazienza. La cosa bella delle giornate ventose è che alla fine il cielo è azzurro, limpido. E l'aria più pulita.

Un post palloso, me ne dolgo per chi è incappato in questo poco inchiostro versato.

domenica 20 luglio 2008

Vergogna.

Accade di domenica, quando la gente sfiancata da un luglio che pare non voler finire mai, trascorre qualche ora sulla spiaggia. Accade che quattro piccole rom devono vendere braccialetti e collanine su quella spiaggia napoletana. Accade che anche loro, sfiancate dal lavoro e dal caldo, vogliono farsi un bagno. Non hanno il costume e allora si buttano in mare vestite. Forse non sanno nuotare, perché al campo rom di Scampia non te lo insegnano. Forse non sapevano che quando c'è il mare grosso e non sai nuotare è pericoloso. Si sono tuffate. E il mare grosso se l'è trascinate dentro. Due bagnini riescono a tirarne fuori solo due, le altre non ce la fanno e vengono ripescate a un centinaio di metri dalla riva. E qui accade l'inimmaginabile. Perché i due cadaveri restano per alcune ore sulla spiaggia, coperti da un telo da mare, senza che nessuno muovesse un dito. Restano sulla spiaggia, mentre la gente continua a leggere il giornale, a mandare sms, a chiacchierare come se niente fosse. In fondo, sono solo due rom che forse infastidivano pure. Per carità, poverine, ma peggio per loro.

Laura Boldrini, portavoce dell'alto commissariato dell'Onu per i rifugiati si chiede: «Si sarebbe tenuto lo stesso comportamento se si fosse trattato di due bambine italiane? Come possibile che le persone non danno più spazio alla commozione, di fronte ad un dramma simile?».

domenica 6 luglio 2008

Lo scrivere


"La parola abbaglia e inganna
perché mimata dal viso.
Ma le parole nere sulla pagina bianca
sono l'anima messa a nudo"
Guy de Maupassant

martedì 1 luglio 2008

Il mio lavoro

Quando si è piccoli, si sogna il lavoro da fare da grandi.
Quando ero piccola ho sognato diverse cose, dalla scienziata alla farmacista. Non sono nata con il pallino del giornalismo, anche se alle elementari ho coordinato il TGiovani per la recita scolastica.
E' stato un innamoramento lento, senza colpi di fulmine (e quindi, un amore destinato a durare). E la scintilla, tra me e lui (il giornalismo) è scattata definitivamente durante un convegno alla Lumsa, con Paolo Gambescia, ex direttore del Messaggero che raccontava un episodio. Lui, sotto scorta per minacce ricevute dalle Br se non ricordo male, in casa con il figlio piccolo che guarda dalla finestra la polizia e gli chiede: "Papà, ma perché proprio tu?". E lui: "E perché non io?". Lì ho capito che era QUELLO che volevo fare, nient'altro. Sapevo che sarebbe stata una strada dura, quasi impossibile. Ma valeva la pena, almeno tentare.
Oggi che questo mestiere (non è una professione, è un mestiere - Gambescia docet) lo faccio mi capita più volte di rispondere alla domanda: ma che lavoro fai?
Ecco, certi giorni me lo chiedo anche da sola. E quasi sempre la risposta arriva. Perché ci sono momenti che vorrei lavorare in banca o alle poste, senza responsabilità, con orari fissi e regolari, ferie sicure, riposi sabato e domeniche e festivi, del tipo: fai il tuo e vai a casa. Vorrei avere il tempo per dormire, mangiare regolarmente alle 13 e alle 20 seduta a un tavolino. Vorrei avere il tempo di telefonare (quante persone ho perso per strada perché io NON TELEFONO MAI). Vorrei avere il tempo di andare dal medico senza fare le corse in macchina. Vorrei non avere il telefono aziendale (anche se è il Blackberry!). Vorrei andare a dormire senza pensare al titolo, alla foto, al pezzo da fare domani, a cosa fare domenica che non c'è niente...
Poi, capitano giorni come questi. In cui ti rendi conto di aver fatto una cagata bestiale sul giornale di ieri (oggi per chi legge) e di dover rimediare. Allora scatta un meccanismo, che ti fa pensare a una velocità impressionante, colleghi nomi, numeri, fatti. Le dita compongono da sole i numeri da chiamare mentre pensi già a quello che farai dopo. L'adrenalina che sento quando sto per dare forma a una notizia è incredibile. Le idee si intrecciano con quelle degli altri colleghi, inquadri la pagina, come la vuoi tu, la disegni nella tua testa e inizia a comporla, come se fosse una canzone. E la soddisfazione che si prova quando quella notizia ce l'hai solo tu e dai un buco ai colleghi è impossibile da descrivere. Così come l'emozione di raccontare la vita della gente, il dramma di tante persone. E capisci che anche solo scrivere questo, ti soddisfa e ti ripaga di tante altre cose. Compresi gli orari impossibili, le cene saltate, la vita assurda, le feste non festeggiate.
Ieri girando qua e là su internet mi è capitato il blog del mio collega di Treviso, Manuel Scordo. In un post c'era una frase bella, che descrive benissimo il nostro lavoro: E giornalismo è raccontare vite, storie, emozioni: ma solo dopo averle viste negli occhi. Il resto è una replicante imitazione.
Aveva ragione Paoluzi, "il maestro", quando davanti alle nostre rimostranze alla scuola di giornalismo per un servizio o troppo tardi, o troppo presto o troppo lontano, insomma, un servizio scomodo, ti guardava e chiedeva: che mestiere vuoi fare?