Però, perché c'è sempre un però, conosco tanti colleghi bravi, dei fuoriclasse che si fanno un mazzo così dalla mattina alla sera. Che hanno passione per quello che fanno, che sanno ancora "essere" giornalisti, attenti, scrupolosi e bravissimi senza riserve. Ma la maggior parte di loro è precario, è collaboratore a 16 euro al pezzo lordi. Aspetta anni, decine di anni per una sostituzione estiva o per una maternità che significa mettere un pezzetto di piede in redazione. Corrono da una parte all'altra della città a qualunque ora del giorno e della notte. Passano le giornate al telefono (non rimborsato) per scrivere tremila battute che firmerà con il giornalista che è rimasto al caldo (o al fresco d'estate)in redazione. Aspettano anni il sogno di un praticantato. Sudano per avere contatti, per mantenerseli. Fanno anticamera dei potenti, aspettano fuori dai ristoranti al freddo e al gelo, a 40 gradi come a -10 senza battere ciglio. Fanno turni massacranti, lavorando anche tredici, quattordici ore di fila. Notte e giorno, non fa differenza. Seguono noiosi consigli comunali, accesi dibattiti parlamentari sul nulla e prendono le botte a Pianura perché si espongono troppo. Sacrificano la loro vita personale, perché non è facile far conciliare gli orari con un lavoro "normale". Perdono amici, treni, fidanzati, vacanze.
E allora, se permettete, io questa categoria "sana" la difendo. Margherita Granbassi, tra una foto sul settimanale patinato di turno e un'Olimpiade, dice: "Dopo (DOPO!) la carriera sportiva mi piacerebbe fare la giornalista"
Una volta, all'università, venne l'ex direttore del Messaggero e poi deputato, Paolo Gambescia. Raccontò un episodio e io non l'ho mai dimenticato. Per un periodo della sua vita (non so se lo sia tutt'ora) è stato sotto scorta per le minacce ricevute dalle Br. Un giorno il figlio piccolo si affaccia alla finestra e guarda la macchina della polizia di sotto e gli chiede: Papà, ma perché proprio tu devi fare questo lavoro? E lui rispose, pensandoci un po': E perché no? E ci spiegò, raccontando l'aneddoto che questo non è un lavoro. E' un mestiere. Perché è artigianale, diceva Walter Tobagi, individuale, duro. Questo ricordava Ai maestri della filosofia, della sociologia da strapazzo.
2 commenti:
Che poi sembra un articolo di denuncia, quando invece e' il solo racconto della verità. Purtroppo.
Cmq, mi piace quando scrivi dura e vera. Te vedo proprio incazzata mentre scrivi, c'ho l'immagine stampata. :)
Siso
Bella lì, Marta. L'ho letto solo adesso. Ogni giorno che passa, maledico Epolis e i tanti che stanno al caldo prendendo uno stipendio sulle spalle di noi collaboratori. Tu non sei tra questi, ma avrai capito di chi sto parlando...ciao e forza Roma
Luca
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